In questa pagina: aforismi, frasi e riflessioni.
All’imbrunire sulla battigia le idee prendono la loro forma più tangibile.
Dunque se vi siete incamminati sulla battigia ed avete voglia
di lasciare la vostra impronta su questa sabbia,
potete aggiungere il vostro pensiero nei commenti,
e i vostri aforismi o le riflessioni più belle e che ben si sposano
con la brezza di questa battigia,
entreranno a far parte della battigia del naufrago!
(*) Per aggiungere il vostro pensiero, scorrere tutti i commenti fino a toccare il fondale della pagina.
198 COMMENTI
Quanto mare nei miei occhi. Rilassante o burrascoso è sempre lui il protagonista. Lui a suggerire un pensiero, un’emozione, un ricordo. Qualche anno fa, in Sardegna. Ora di pranzo, a poltrire all’ombra di un ombrellone blu. Disteso a terra sull’asciugamano colorato, riesco ad appoggiare la schiena sull’unica roccia di granito rimasta in spiaggia. Auricolari per isolarmi dal vociare dei bagnanti, neppure troppi per la stagione estiva. Che meraviglia. Alla spiaggia di sabbia non sono abituato, quindi all’occasione, me la voglio un po’ godere, la voglio capire. Chiudo il libro e mi soffermo su un ragazzo biondo con i capelli lunghi che gioca sulla battigia col suo cane. Gli lancia un freesbee al largo e l’animale felice lo va a riprendere. Mentre aspetta, il giovane ha i capelli scompigliati dal vento che arriva alle sue spalle. Anche il sole arriva da dietro, così che la mia immagine e pure la sua non viene disturbata da alcun riflesso. Il mare blu scuro è di fronte a lui e sembra invitarlo ad osservarne l’infinito. Le veloci onde che arrivano sulla sabbia lo fanno un po’ arretrare per poter restare in equilibrio, fino al prossimo lancio al cane. Una scena bella, di libertà. Nelle cuffie ho la splendida musica degli anni 70, i Jefferson Airplane. Assieme al capellone libero, quella musica mi apre il ricordo della gioventù hippy, dei grandi raduni americani, dei concerti, del pacifismo, dei sogni. Il cane ritorna col freesbee in bocca, gocciolante di mare, e il suo padrone si piega verso di lui per accarezzarlo, esibendo una certa magrezza che rivela le ombre del costato. Erano tutti così negli anni 70. Eravamo tutti così. Che peccato. Eravamo certi di vincere, la nostra purezza era la nostra forza e noi eravamo giovani. Impossibile perdere. Il ragazzo che sto osservando non immagina neppure che cosa mi sta ricordando. La nostra sconfitta. Abbiamo perso. E quel che è peggio è che siamo stati usati. Come il miglio al canarino, il potere ci ha attirato con mangimi di tutti i tipi. Prima ci ha richiamato con la musica e gli slogan, poi ci ha decimato con la droga e il consumismo. Il gioco era più grande di noi. È finito tutto. Non si torna indietro. Possiamo solo fare finta di essere liberi, per qualche ora, e giocare sulla battigia senza pensare al futuro. La musica dei Jefferson finisce e il sole sta già calando dietro la collina. Il ragazzo biondo chiama il suo amico col freesbee in bocca e se ne va.
Fin da piccola mi sono sempre chiesta perchè…
Perchè la terra,gli uomini,gli animali,tutto questo trambusto per poi morire….
Spesso l’angoscia mi prendeva all’improvviso, avevo paura del futuro, del domani….
Crescendo ho capito che non ero l’unica a porsi questa domanda…
Poi un giorno arriva il dolore…
Quello vero,quello che ti spacca in due il cuore, quello che ti fa camminare sull’orlo del baratro…
E ti accorgi che siamo stati creati anche per affrontarlo, per superarlo e per essere più forti….
Ecco , non ho più paura……
Grazie mille Hazelnut,
c’è chi è nato per esser una fenice:
rinascendo dalle proprie ceneri,
con qualche consapevolezza in più e qualche paura in meno,
tenendo sempre presente che la vita è qualcosa che nessuno ci doveva.
Non era promesso!
Ma è stato un dono.
A noi spetta affrontare le sue bellezze e quello che ci fa soffrire.
Morire anche,
ma mai per sempre! 😉
Grazie Giorgio ☺️
Grazie Rita per la tua magnifica poesia! State arricchendo questa battigia con coralli preziosi!
Mi ci ha portato la risacca fin qui… e con la risacca riprendo il largo. Non escludo il ritorno. 🙂
Noi che siamo nati sugli scogli
e tutto ci pareva difficile
Noi che a piedi nudi
abbiamo imparato a sopportare
le asperità delle rocce
Noi che la battigia sabbiosa
riflesso di una vita comoda
non sappiamo che cosa sia
Noi che l’onda
che s’infrange negli anfratti
ce la portiamo dentro
Noi che la risacca ci fustiga
e non ci accarezza, mai
Noi, che anche nel mare burrascoso
abbiamo preso il largo
più forti, più vivi, sempre.
Sulla battigia la mente vola e lo sciabordio dell’acqua fa un continuo avanti-indietro, un dentro-fuori senza tregua che mi fa ripensare alle mie amicizie. Durano un po’, certo qualche anno, poi, chissà perché, se ne vanno via pian pianino, così come sono arrivate. Senza grossi contrasti, forse esiste qualcosa che stanca. Ci stanchiamo noi, si stancano gli altri? Diamo forse agli altri delle aspettative? Non so, promettiamo inconsciamente qualcosa di cui loro hanno bisogno? O ne abbiamo bisogno noi? E perchè poi tutto svanisce? A volte mi vedo come una spugna, assorbo assorbo fino a quando sono bello gonfio. Poi devo cambiare, il liquido che mi impregna cola via da tutte le parti. Non assorbo più. La mia esperienza è finita, ne devo cominciare un’altra. Esaurito l’entusiasmo della scoperta mi metto là, e aspetto. Non cerco mai l’esperienza. Posso restare anni senza fare nulla. Ma lei arriva senza farsi chiamare. Arriva da sola e mi deve insegnare qualcosa. Alberto. La tua passione era l’Africa, l’Africa nera, lo Zaire degli anni passati dove ti piaceva fuggire per ritrovare l’umanità. Ritrovavi te stesso perchè incontravi l’altro, la persona semplice che non ti metteva ansia, soggezione, paura. Mi hai raccontato i tuoi segreti e come sei stato accolto. Come un figlio, come un fratello. Chiedevi collaborazione e l’ospitalità da quegli sconosciuti, gente buona che ti aiutava sempre. Gli raccontavi che tuo zio missionario ti stava aspettando e tu, non avendo i soldi per viaggiare, speravi nel loro aiuto. Che non mancava mai. Disponibili, pronti. Ti hanno fatto dormire a casa loro, ti hanno nutrito e ti hanno trasportato per centinaia di chilometri nella foresta a bordo di camion e vecchi gipponi scassati. Ti sentivi a casa, tu. Diventavi anche tu più buono e disponibile. Quando tornavi qui, l’effetto benefico però svaniva presto. “Qui non riesco” ti scusavi. Perchè laggiù si? Perchè lì mi aiutano. Certo, ma gli racconti frottole, non è vero che sei senza soldi e tuo zio missionario ti sta aspettando. Per forza gli racconto balle, mi rilanciavi, altrimenti non mi darebbero alcuna disponibilità e io non riuscirei mai a godere del loro mondo. Mi sentivo stranamente a disagio dopo questa verità. E noi? Anche noi siamo disponibili se qualcuno male in arnese ci chiede aiuto. Non lo siamo più se non gli crediamo, se ci racconta frottole oppure siamo sicuri che fa finta di avere bisogno mentre in realtà vuole solo sfruttare il nostro buon cuore. Alberto ed io non abbiamo continuato la nostra amicizia. Dopo tanti anni la mia spugna era zuppa, e io e lui ci siamo persi di vista. Vorrei oggi parlare con lui della sua Africa e della nostra Africa, quella che è venuta qui. Vorrei chiedergli mille cose. Ma Alberto è partito due anni fa per il suo ultimo viaggio. La malattia l’ha portato via. Con le sue certezze.
Va e viene, lo sciabordìo di questo mare. E così pure le nostre esperienze. Spesso incomplete, mai deludenti.